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una lettura preoccupata delle affissioni elettorali a Cosenza

Tra dire e non dire

di Massimo Celani e Marina Machì






Niente di scientifico per carità, solo qualche considerazione tesa all’oggettività in materia di comunicazione elettorale.
Dobbiamo smetterla di pensare che il parlare sia contrapposto al fare. Con il parlare e nel parlare si compie un determinato atto, chiamato atto linguistico, un atto che produce qualcosa, un cambiamento dentro di noi e/o intorno a noi. Parlando si produce necessariamente un cambiamento, nel parlare l'individuo compie sempre un'azione, perché dire è fare. Sono questi gli assunti da cui parte la filosofia degli atti linguistici (siamo negli anni ‘50). La teoria degli atti linguistici si basa sul presupposto che con un enunciato non si possa solo descrivere il contenuto o sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo, per esercitare un particolare influsso sul mondo circostante (Austin, il padre della teoria degli atti linguistici nella filosofia tenne nel 1955 una lezione all'università di Harvard dal titolo "How To Do Things With Words" (Come fare cose con le parole). Premesso tutto ciò, crediamo sia lecito praticare una lettura semiologica e preoccupatamente sintomatica degli enunciati – e pure dei silenzi – utilizzati nei manifesti di questa campagna elettorale.


Per la verità non si tratta solo di slogan. Contano anche le modalità di affissione, più o meno aggressive, chi “copre” chi, spesso fuori dalle logiche di schieramento contrapposti, i numeri e la potenza di fuoco della macchina elettorale. In questo caso riverbera l’operato degli attacchini, spesso più realisti del re, più agonisti dei candidati ormai abituati al cambio di partito e allo scivolamento da una sigla all’altra. Con una nonchalance forse non condivisa dagli attacchini, forse gli ultimi veri, ruspanti, militanti/militonti, capaci di prendersi a mazzate a via Popilia o alla villetta di viale Trieste. Comunque fidelizzati al locale leader maximo e per questo capaci di perdonare il cambio di insegne e di partito. 



Succede così che Franz Caruso, da gentleman qual è, decida di scusarsi per l’implacabile copertura adoperata nei confronti di un evento teatrale. Ma dimentica di scusarsi (e l’occasione era irripetibile) per la pochezza, per la bruttezza del suo manifesto. Fondo tricolore slavato, certo sovradeterminato dall’esplosione dei colori del marchio del PD, un bianco rosso e verde trattenuto, il tricolore è pur sempre storicamente marca nazionalista dello schieramento un tempo opposto. 



Menzione d’onore al bellissimo slogan di Fabrizio Falvo “ritorno di fiamma”, peccato sia avvilito dalla sciatteria della composizione tipografica. Ritornando a Caruso, scrive “la Calabria che cambia”. In che senso? E’ il candidato un artefice del cambiamento, ha mai cambiato qualcosa, anche un calzino non intonato o il nodo della cravatta sempre perfetto anche quando marchionnescamente casual non l’indossa? In cosa è mai cambiato? Al contrario, sembra sempre uguale a se stesso. Sorridente, gentile, elegante, una specie di Dorian Gray, identico nei secoli. Dice qualcosa che avrebbe potuto dire, indossandolo meglio, Mimmo Talarico. Il quale invece opta per “riferimento sicuro”. 



Si tratta di un chiasmo, una relazione a X: Caruso dice ciò che avrebbe potuto dire meglio Talarico. E viceversa. Sempre a giudicare dall’indossabilità degli enunciati, vale a dire tenendo conto della pertinenza, la credibilità, l’autenticità, la storia politica del candidato.  In un altro manifesto, Talarico, che è uno che messo alle strette “cambia”, specifica per chi sarebbe un “riferimento sicuro”: per la cultura, per i giovani, per chi innova. Già così il concetto risulta meno astratto, prova a delineare qualche segmento di target privilegiato. Il limite resta proprio in quel “riferimento sicuro”, poco in linea con la forma mutevole, variabile e liquida dei partiti, buono per chi ha una memoria prodigiosa o – stessa cosa – per gli elettori senza memoria. Qualche anno addietro fecero un po’ di rumore i manifesti con la sua carta d’identità in formato 70x100 e con su scritto “identità politica certa”. Rischioso perseverare brandendo direzioni politiche certe e sicurezza. Di questi tempi si è liberi di cambiare, i cittadini ci sono abituati. I partiti quasi più non esistono e l’unico residuale molto presto (non occorre zingara o sfera di cristallo) si spaccherà. Anche Wanda Ferro, formatasi in un-partito-uno che non c’è più, mette le mani avanti e dice di sentirsi “a mani libere”, cioè sufficientemente disubbidiente e aperta ai cambiamenti. Abile ma pur sempre un atteggiamento che fa virtù della necessità, un espediente retorico (e non è una parolaccia) per dire della discontinuità nella continuità: sono sulla scia di Scopelliti ma sono meglio. 



Carlo Guccione, che almeno non esibisce il suo sembiante imponente, si limita a un abusato “si volta pagina”, prefissato dall’ hashtag (vale a dire “seguimi su twitter e/o su facebook”). Detto tra parentesi, di chiocciole e cancelletti (che altro non sono che “trending topics”, collegamenti ipertestuali che fungono da etichette), così modaioli e Renzi-fashion, moriremo seppelliti un attimo dopo l’abuso di puntini sospensivi e virgolette. Oltre che da una risata che inevitabilmente accompagnerà la sottovalutazione di quanto il gap tecnologico caratterizzi la nostra regione. Presente fino alla precedente consiliatura, ci chiediamo quanto sia credibile una promessa del genere. Forse è un auspicio di cui si sente la necessità, ma a giudicare dal niente da dire lì concentrato, sembra ben difficile che si avveri. In un altro soggetto di manifesto (stesso autore) si evoca “il vento del cambiamento”. S’intende il riferimento al governo regionale uscente, ma la repentina metamorfosi del suo partito in “direzione” berlusconiana non ci fa immaginare una folata che spazzi via il pregresso. 



Certo il candidato Presidente ha finora resistito al renzismo e ai suoi diktat, ma un “si può fare” di terza mano non prefigura cambiamenti radicali. Enunciato pigro, s’intende come una forma di reticenza: almeno non promette niente, attenendosi al registro del possibile.



Avrebbe potuto dire “la forza dell’esperienza”, cosa che scrive su un manifesto Pino Gentile. E’ vero: Mario Oliverio e Pino Gentile hanno quella forza tranquilla sedimentata nel tempo. Sono nati e cresciuti nella politica. Possono enunciarlo o meno ma è un elemento di verità che nessuno discute (salvo invocare la rottamazione). 





Morrone opta per la consueta forma silenziaria ed evita gli slogan (nel 2010 aveva scritto a corpo piccolo “impegno e concretezza”). La vecchia volpe sa che tanto i manifesti servono a poco e niente e che tutto si risolve su un’altra scena molto più concreta. 



Tace anche Giacomo Mancini, mostrandosi sorridente in una bella foto. 
Senza slogan anche Gianpaolo Chiappetta, fotografato in atteggiamento pensieroso forse più adeguato alla criticità della situazione politico-sociale (salvo poi sbizzarrirsi in uno spot ironico al punto giusto). dammi voce




Magarò sceglie da tempo una retorica del silenzio ancora più radicale e non stampa manifesti. Almeno non partecipa alla guerriglia delle affissioni e non imbratta i muri. Se in qualche circostanza ne ha stampato qualcuno mostrava non la carta d’identità ma il certificato dei carichi pendenti (immacolato: cosa che per un politico meridionale è merce assai rara). 



Al contrario, Maurizio Orrico di manifesti ne ha realizzati tanti. Come è giusto che sia per un neofita. E i primi due della serie avevano fatto ben sperare, per l’eleganza, per l’allusione alla bellezza, per una sobrietà di fondo. I successivi hanno invalidato lo start, ha cercato la provocazione e il discorso si è incasinato oltremodo. Peccato.







Non voleva essere una rassegna esaustiva e ci scusiamo se ci sono sfuggite altre soluzioni comunicative più interessanti. Da notare in conclusione il ritorno delle croci sul simbolo e della dicitura “scrivi XY” (un tempo riservati ai soli facsimili). Un atteggiamento regressivo che fa il paio con il sempre più raro utilizzo di professionisti della comunicazione. Ci fu un tempo in cui qualche candidato aveva preso a utilizzare qualche agenzia pubblicitaria e a dialogare coi laureandi e laureati di Scienze della comunicazione. Ora quasi non c’è più nemmeno il corso di laurea.
Per tutto ciò, per i destini della nostra regione, per il fare preannunciato da questi modi di dire, non nascondiamo qualche motivo di preoccupazione.

I manifesti silenziosi, Il Quotidiano del Sud, edizione di Cosenza, pp. 14-15, Lunedì 17 novembre 2014

Commenti

  1. Andrea Amoroso mi segnala un mostruoso "leader maximo". Ovviamente si trattava del "Lider màximo". E maledetta sia la sudditanza nei confronti della lingua inglese

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  2. Francesco Frangella propone un bel titolo alternativo: "I manifesti ca 'un dicianu nente"

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